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Trento, 1 novembre 2007
LA SCUOLA NON PUO’ IMPORRE IL CROCIFISSO
di Iva Berasi
da l’Adige di giovedì 1 novembre 2007

In questi giorni in un paio di lettere pubblicate dall’Adige c’è chi si è scagliato contro di me, rea di aver definito, secondo loro, «diseducativo» il crocifisso, nella vicenda dei 70 crocefissi acquistati da un dirigente scolastico ed affissi in ogni aula. Cito testualmente qual è stata la mia dichiarazione: «Imporre un simbolo cristiano in presenza di ragazzi che fanno riferimento ad altre religioni mi sembra negativo. Inoltre, il fatto che questo avvenga in un luogo dove bisognerebbe insegnare valori come la tolleranza e l’uguaglianza mi sembra addirittura diseducativo». Al cronista che, per ragioni di spazio ha fatto una sintesi di una conversazione più lunga ed articolata, avevo anche precisato che, a casa mia, ho appeso al muro il crocifisso e quindi per me quel simbolo ha un significato positivo, profondo e condiviso.

Come si capisce leggendo l’intera frase, ho solo rilevato la contraddizione fra ciò che dovrebbe insegnare la scuola e un certo integralismo religioso che vorrebbe imporre a tutti i propri valori (e simboli), anche alla minoranza che non li condivide. Tutto qui. La diseducatività sta nella contraddittorietà dell’azione pedagogica, non nel crocifisso. Azione pedagogica che - per quanto concerne la formazione alla religiosità (per chi ne abbia interesse) - dovrebbe anzitutto preoccuparsi, più che dei simboli (spesso usati per dividere piuttosto che per unire) dei valori che, a ben guardare, almeno per quanto riguarda le grandi religioni monoteiste o la tradizione buddista, hanno molti apprezzabili punti di convergenza.

Lo stesso dirigente scolastico, successivamente, ha precisato di aver acquistato di tasca propria i crocifissi unicamente per applicare una legge dello Stato italiano che risale al periodo fascista, ma di essersi contemporaneamente rivolto, da privato cittadino, ad un senatore della Repubblica chiedendogli di farsi carico di una iniziativa legislativa per l’abolizione di quel decreto anacronistico.

In realtà il Parlamento si sta già occupando della revisione della legislazione sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi oggi in vigore, su impulso dei deputati Marco Boato e Valdo Spini, presentatori di due disegni di legge, il n. 36 e il n. 134, ora confluiti in un testo unificato già all’esame della Commissione affari costituzionali (relatore Roberto Zaccaria). Si tratta di una materia molto complessa e che investe questioni fra le quali potrà collocarsi anche la discussione sui simboli religiosi ed il loro uso pubblico.

L’articolo 9 del progetto di legge, in particolare, si occupa dell’educazione religiosa nella scuola. Sono in gioco, da un lato i diritti fondamentali degli individui ricapitolati, in particolare, nell’art. 3 della Costituzione, fra i quali rientra anche il diritto di ciascuno di professare liberamente la propria fede religiosa, e dall’altro il riconoscimento della reciproca indipendenza fra Stato e Chiesa (così come previsto dall’art. 7 della stessa Costituzione) e fra Stato ed altre confessioni religiose, diverse dalla cattolica (art. 8): diritti e doveri che coinvolgono entrambi gli interlocutori.

Lo storico ed editorialista Sergio Romano ha pubblicato nel 2005 un saggio intitolato «Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano in Italia da Pio IX a Benedetto XVI» (Longanesi & C.): ne consiglio la lettura, in primis, ai due lettori offesi dalle mie dichiarazioni, ma anche a coloro che, interessati sul piano storico e culturale alla questione dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia avessero l’erronea convinzione che la Chiesa cattolica versi in uno stato di inferiorità o di «compressione» dei propri spazi vitali nei rapporti con lo Stato italiano.

Mi pare perfino banale dover ribadire che, in uno Stato democratico e laico, i diritti di ciascuno di noi terminano dove iniziano quelli degli altri, e questo vale anche per la manifestazione delle nostre convinzioni religiose, tutte legittime, sacrosante, rispettabili e tutt’altro che diseducative.

Iva Berasi
Assessore provinciale all’Emigrazione, solidarietà internazionale, sport e pari opportunità

 

 

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